Il giornalista internazionale che è entrato a Gaza (come operatore umanitario)

Tre mesi sotto assedio, tra fame, cecchini e blackout informativo.

Afeef Nessouli è uno dei pochissimi giornalisti internazionali ad aver messo piede a Gaza dal 7 ottobre 2023, non considerando quelli al seguito delle forze israeliane. Per riuscirci, ha dovuto celare di essere un giornalista.

È dal 2023 che i media di tutto il mondo chiedono invano il permesso di entrare a Gaza, ma finora Israele ha sempre bloccato ogni accesso.

Eppure qualche mese fa un giornalista statunitense è riuscito ad entrare nella Striscia presentandosi come volontario umanitario di una NGO. Afeef Nessouli si è unito a un team di medici e infermieri diretto per prestare servizio nell'enclave assediata.

Grazie a questo espediente rischioso, è riuscito a vedere con i propri occhi gli orrori di quello che sta accadendo in Palestina.

Questo numero di Debrief è dedicato alla sua storia. E anche se non si tratta propriamente di un’indagine sotto copertura, spiega molto bene perché talvolta sia davvero necessario mentire sulla propria identità per poter raccontare la realtà.

La issue di oggi è scritta da Sacha ed editata da Luigi.

Tre mesi dentro Gaza

Afeef Nessouli è un giornalista americano che scrive per The Intercept e da oltre un decennio si occupa di cronaca dal Medio Oriente, in particolare dai Territori palestinesi occupati. Di base a New York City (ma spesso al lavoro a Beirut), Nessouli si occupa di conflitti e questioni relative ai diritti umani dal 2011, concentrandosi spesso sulle esperienze delle comunità emarginate. In particolare, è diventato uno dei pochi giornalisti a dare voce alla comunità LGBTQ+ palestinese dopo l'ottobre 2023. 

Alla fine di marzo 2025, è entrato a far parte di un'organizzazione di assistenza medica guidata da palestinesi chiamata Glia International, un'organizzazione senza scopo di lucro che porta personale medico internazionale a Gaza per sostenere gli operatori sanitari locali. Iscrivendosi a Glia come coordinatore logistico, ha ottenuto l'autorizzazione necessaria per entrare nella Striscia in un momento in cui i giornalisti erano vietati.

Per circa tre mesi (dal 27 marzo al 3 giugno 2025) Nessouli ha vissuto dentro Gaza, lavorando realmente come operatore umanitario. “Sono andato con Glia. Penso che sia davvero importante rendersi conto che in questo momento i giornalisti palestinesi stanno soffrendo a causa della malnutrizione. Ma nell'ultimo anno e mezzo, due anni, sono stati in prima linea. Non credo che avessero necessariamente bisogno che io andassi lì come giornalista. Avevano bisogno di qualcuno che li aiutasse sul campo, ed è quello che ho fatto”, ha spiegato al suo ritorno. Durante quei giorni ha ricoperto molti ruoli, come il coordinamento delle ambulanze in caso di incidenti con vittime multiple, l'assistenza nelle mense comunitarie, la distribuzione di acqua e l'aiuto negli orfanotrofi.

Ma nel (poco) tempo che gli rimaneva ha anche raccolto testimonianze e fonti per il suo lavoro da giornalista. Ha intervistato medici, pazienti e residenti, prendendo appunti su ciò che vedeva e documentando le prove della crisi umanitaria in corso. Come lui stesso ha sottolineato, i giornalisti palestinesi locali stavano già rischiando la vita per seguire la vicenda, quindi il suo primo dovere era quello di aiutare fisicamente sul campo.

La realtà che si è trovato a vivere era quella che vivono i palestinesi tutti i giorni. “Ho perso anche 5-6 chili”, ha osservato, perché i volontari umanitari dovevano affrontare la stessa scarsità di tutti gli altri. “Molti di noi mangiavano solo un pasto al giorno”, ha raccontato Nessouli, e questo all'inizio. Le condizioni sono solo peggiorate. 

Screenshot del reportage di Nessouli

Morire di fame o per avere un pezzo di pane

“È stata un'esperienza incredibilmente terribile vedere le persone diventare sempre più malate per la fame”, ha detto in un’intervista al suo ritorno, descrivendo delle scene che aveva vissuto in prima persona. Prima della guerra, una rete di mense comunitarie sfamava quasi la metà della popolazione. Quando è partito, quelle mense erano praticamente collassate: da 250.000 pasti al giorno erano passate a una misera quantità di 25.000, fino a esaurire completamente le scorte di cibo. 

Un giorno, i volontari di Shabab Gaza (una mensa comunitaria) non avevano più nulla da cucinare tranne un mucchio di patate. Quello è stato l'ultimo pasto per molti e per diverso tempo. I residenti disperati si avvicinavano a Nessouli per strada, implorandolo, per sapere se avesse della farina o della tahina nascoste nel suo camion degli aiuti. “Non abbiamo più farina”, rispondeva lui, “anche noi abbiamo molta fame”. Con l'esaurirsi delle scorte alimentari, la morte per fame si aggiunse alla lista delle minacce quotidiane.

Durante il periodo in cui Nessouli ha lavorato a Gaza, Israele e gli Stati Uniti hanno messo in atto un nuovo sistema di centri di distribuzione degli aiuti gestiti dalla cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation (GHF). In teoria, la GHF avrebbe dovuto sostituire le decine di centri alimentari delle Nazioni Unite che operavano in precedenza sul territorio. In pratica, ha creato quattro centri di assistenza fortemente sorvegliati, dove migliaia di persone affamate facevano la fila per ore (spesso durante la notte) nella speranza di ricevere un piccolo pacco di generi di prima necessità. Nessouli ha visto con i suoi occhi come queste file in attesa per il pane si siano trasformate in una condanna a morte. “Dalle mie testimonianze e dalla mia esperienza, le persone vengono sparate, sparate molto regolarmente”, ha detto a Democracy Now!, descrivendo il fuoco dei cecchini sulla folla in attesa della distribuzione degli aiuti. 

I medici di Gaza curavano civili con ferite da arma da fuoco alla nuca, tipiche dei cecchini. Il 26 maggio, durante la prima distribuzione di cibo del GHF, è scoppiato il caos. Si sono sentiti degli spari mentre la folla spingeva in avanti. Khalil, un ventiseienne di Gaza che era in fila, ha descritto la scena: “Hanno iniziato a sparare direttamente sui civili disarmati”, ha scritto Nessouli su The Intercept. “I proiettili ci inseguivano come se fossimo bersagli in un poligono di tiro, ed eravamo persone affamate. Ci siamo dispersi sotto una pioggia di proiettili. Quel giorno sono stato più vicino alla morte che a un pezzo di pane”. 

Divieto di accesso alla stampa

Per quanto la storia di Nessouli sia abbastanza unica, non è la prima volta che un giornalista entra a Gaza senza essere al seguito dell’esercito israeliano. Nel dicembre 2023, c’era riuscita anche Clarissa Ward della CNN, considerata la prima giornalista occidentale ad avere messo piede a Gaza dall’ottobre 2023. Ha attraversato il confine di Rafah con un convoglio umanitario di volontari medici degli Emirati Arabi. Ward e la sua piccola troupe si sono stipati nel retro dell'auto di un operatore umanitario e sono entrati nella parte meridionale della Striscia, con le telecamere accese. È rimasta per poche ore, il tempo di riprendere la devastazione di Rafah: edifici bombardati e folle di famiglie sfollate che si facevano strada tra cumuli di macerie.

I sotterfugi che Nessouli e Ward hanno dovuto usare, sono dovuti al divieto che Israele ha imposto ai giornalisti stranieri, imponendo un blackout totale dei media sul territorio. I giornalisti palestinesi all'interno di Gaza che hanno continuato il loro lavoro hanno perso la vita a centinaia. A metà del 2025, quasi 200 giornalisti e operatori dei media sono stati uccisi, la stragrande maggioranza dai raid aerei israeliani, rendendo questo conflitto il più sanguinoso per i reporter degli ultimi decenni. Le organizzazioni internazionali per la libertà di stampa hanno lanciato l'allarme. A giugno, oltre 200 organizzazioni di media ed editori hanno firmato una lettera aperta in cui esortavano Israele a revocare il divieto, definendo l'esclusione dei media indipendenti “senza precedenti nella guerra moderna”. Agenzie di stampa globali come la BBC, l'AP, la Reuters e l'AFP hanno chiesto pubblicamente l'accesso, sottolineando che i loro giornalisti a Gaza stavano morendo di fame sotto assedio. “Siamo profondamente preoccupati per i nostri giornalisti a Gaza, che sono sempre più incapaci di sfamare se stessi e le loro famiglie”, hanno avvertito le agenzie. Ma queste richieste sono state accolte con silenzio o indifferenza dalle autorità israeliane e il blackout sulla stampa continua. 

La storia della carestia a Gaza avrebbe dovuto rimanere nascosta, o raccontata solo attraverso la propaganda ufficiale, ma grazie al lavoro dei giornalisti palestinesi sul campo e grazie anche all'impresa di Afeef Nessouli è arrivata sotto gli occhi di tutti. 

In circostanze come queste, l’unico modo che dei giornalisti internazionali hanno potuto fare il loro lavoro è stato quello di non presentarsi come tali. 

Al prossimo Debrief,

Luigi e Sacha

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