Il governo Italiano autorizza i servizi segreti a dirigere cellule terroristiche sotto copertura

Con l’articolo 31 del Decreto Sicurezza, i servizi segreti italiani potranno dirigere organizzazioni terroristiche e usare esplosivi senza conseguenze penali. È tutto scritto nella legge.

Quali sono i limiti e i pericoli del metodo undercover quando a usarlo sono i governi e non i giornalisti? In questo numero di Debrief analizzeremo quello che sta succedendo in Italia dove nell’ultima settimana è stato convertito in legge il cosiddetto Decreto Sicurezza, promosso dal governo Meloni. 

All’articolo 31, questa nuova legge dice essenzialmente questo: i servizi segreti italiani potranno operare sotto copertura per dirigere organizzazioni terroristiche anche con l’uso di esplosivi, senza doverne rispondere penalmente. Una norma che ci costringe a una riflessione collettiva: può lo Stato fingersi terrorista per proteggerci dal terrorismo? E cosa è successo l’ultima volta che l’ha fatto?

Questo numero è scritto da Luigi ed editato da Sacha.

Lo Stato che si travestiva da nemico

Nord-Est, fine anni Sessanta. L’Italia è attraversata da tensioni sociali, proteste operaie, rivendicazioni studentesche. Ma, lontano dalle piazze e dai cortei, si prepara un altro tipo di risposta. È l’Operazione Delfino: un piano segreto concepito dallo Stato Maggiore del SIFAR, i servizi segreti militari, come si chiamavano all’epoca, per testare sul campo le cellule di Gladio, un'organizzazione paramilitare clandestina nata nel 1956 (e sciolta poi solo nel 1990) da un accordo tra la CIA e i servizi italiani, ufficialmente per resistere a una possibile invasione sovietica. Di fatto, per contenere l’avanzata del comunismo in Italia.

I gladiatori – così venivano chiamati i membri di Gladio, molti dei quali provenivano da ambienti neofascisti – venivano addestrati a usare esplosivi, tecniche di sabotaggio, infiltrazione e fuga. Il generale Paolo Inzerilli, che per anni guidò l'organizzazione, disse che un vero gladiatore doveva “imparare ad essere, piuttosto che una recluta, un capo: il capo d’una banda guerrigliera”. In tempo di guerra, Gladio doveva agire come una milizia. In tempo di pace, doveva neutralizzare le attività comuniste.

Paolo Inzerilli, il generale che ha guidato Gladio

Nel 1965 l’Operazione Delfino trasformò questi scenari ipotetici in un esempio concreto. Agenti sotto copertura furono incaricati di mappare sedi di partito, monitorare centri culturali e sportivi, spiare raduni e comizi, raccogliere informazioni compromettenti sugli attivisti di sinistra, schedare esponenti della comunità slovena. Alla raccolta informazioni doveva seguire una fase attiva: provocare disordini, intimidire, sabotare manifestazioni, creare “piccoli incidenti atti a risvegliare la popolazione”. Ma tra le prescrizioni del piano c’era anche un’istruzione che oggi suona agghiacciante: “atti di terrorismo da addebitare all’insorgenza”.

Qualche anno dopo, quel copione iniziò a diventare realtà. Come sottolinea anche il giornalista Ugo Dinello nel libro “La via delle armi” (Laterza, 2022), tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, cinque delle sei più gravi stragi politiche in Italia avvennero o furono pianificate nel Nord-Est. In tutte comparivano uomini, mezzi, metodi che poi, si sarebbe scoperto, appartenevano a questa strategia. E tutte, inizialmente, furono attribuite ad anarchici o estremisti di sinistra. Solo dopo decenni di inchieste, depistaggi e silenzi, la magistratura riuscì a ricostruire il coinvolgimento di segmenti dello Stato: una verità giudiziaria che arrivò, a fatica, dopo anni di menzogne.

Oggi, però, cinquant’anni dopo, una nuova legge potrebbe impedire che simili condotte vengano perseguite in futuro. Con l’articolo 31 del Decreto Sicurezza, lo Stato si concede il potere di costruire operazioni sotto copertura, dirigere gruppi terroristici fittizi, commettere reati gravi in nome della sicurezza, senza che nessuno possa risponderne penalmente, lasciando queste condotte criminali impunite per sempre.

Cosa dice davvero l'articolo 31

Convertito in legge il 9 giugno 2025, il Decreto Sicurezza (Legge 80/2025) è stato definito da molti osservatori come uno dei provvedimenti più duri degli ultimi anni in materia di ordine pubblico. Il testo introduce 14 nuovi reati, 9 aggravanti, poteri rafforzati per le forze dell'ordine e norme più severe per minori, migranti e manifestanti. Accanto a misure contro baby gang e blocchi stradali, si ampliano le capacità operative dello Stato anche sul fronte dell'intelligence.

Tra le norme più controverse c'è proprio l'articolo 31, che introduce un ampliamento delle cosiddette "garanzie funzionali" per i servizi segreti. In pratica, con l'autorizzazione del Presidente del Consiglio o dell'autorità delegata, un agente sotto copertura può non essere punito per aver partecipato a un reato, se questo è indispensabile alla sicurezza della Repubblica.

La novità dell'art. 31 è che estende questa copertura anche all’organizzazione e direzione di gruppi con finalità terroristiche o eversive. Non solo: include reati gravissimi come l’acquisto, la detenzione e fabbricazione di esplosivi e la distribuzione di istruzioni su come prepararli, la partecipazione o il sostegno di associazioni sovversive o terroristiche, l’addestramento per finalità di terrorismo, il finanziamento di attività terroristiche, l’istigazione o l’apologia di crimini contro lo Stato o contro l’umanità, e la partecipazione a bande armate.

Il Governo Meloni difende l’articolo 31 sostenendo che, per prevenire attentati, è necessario penetrare a fondo nelle organizzazioni terroristiche. Le informazioni più rilevanti, come piani operativi, risorse logistiche, strategie di attacco, non si ottengono dalla periferia, ma dai vertici. È solo scalando la gerarchia interna che un agente infiltrato può accedere a dati realmente utili per fermare una minaccia. Ma proprio questa scalata implica che l’infiltrato debba contribuire all’organizzazione stessa, magari promuoverne le attività o guidarne le azioni. Fermarlo prima, sostiene il Governo, significherebbe perdere l’occasione di smantellare l’intera rete.

Sede unitaria dei servizi segreti italiani

Alcuni giuristi hanno espresso forti riserve sulla possibilità di scriminare il reato di direzione o organizzazione di associazioni terroristiche. La critica centrale riguarda il rischio che questa deroga venga estesa ben oltre l’obiettivo dell’infiltrazione, giustificando azioni che sfiorano — o superano — il limite della legalità. Questo aprirebbe la porta a operazioni opache, difficilmente controllabili, e potenzialmente contrarie agli stessi interessi dello Stato.

“Questa norma rappresenta un salto di qualità inaccettabile, passando da servizi che si infiltrano ad agenti provocatori autorizzati a compiere reati gravissimi. È inquietante che il governo rifiuti un controllo democratico effettivo da parte del COPASIR, specialmente ricordando le tragiche esperienze del passato, quando settori deviati dei servizi segreti destabilizzarono il Paese”.

Anche i familiari delle vittime del terrorismo hanno reagito con allarme. A Gennaio, Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della Strage di Bologna, diceva:

“Il decreto Sicurezza vuole fare diventare legali quelli che noi abbiamo chiamato servizi segreti deviati. La storia della strage di Bologna dimostra che se non c’erano i servizi segreti ad aiutare i terroristi la strage non si riusciva a fare. È questo il dettaglio, non piccolo: hanno operato, non solo con la copertura, ma hanno fatto in modo che i terroristi fossero tutelati per arrivare a Bologna. E poi da lì i depistaggi, predisposti anche prima.”

Giornalisti finti, studenti fantasma: gli ultimi “undercover” della polizia italiana

Negli ultimi mesi, mentre si discuteva in maniera abbastanza cauta sull’entrata in vigore dell'articolo 31, sono emersi due casi che sembrano segnali concreti di ciò che questa norma potrebbe generare con sempre più frequenza. 

A Catania, durante tre manifestazioni a marzo 2025, un agente della Polizia di Stato si è infiltrato nei cortei fingendosi un giornalista de “La Sicilia”, con tanto di telecamera alla mano e logo del giornale ben in vista. Il poliziotto sotto copertura come giornalista ha filmato attivisti e sostenitori della Palestina, confondendosi tra i manifestanti. L’Associazione siciliana della Stampa ha definito l’operazione “inappropriata” e ha esortato la Questura a fare chiarezza.

Poco dopo, un altro caso. A Napoli, un poliziotto di soli 21 anni, ufficialmente in servizio presso la Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, ha passato quasi dieci mesi come infiltrato all’interno del movimento di sinistra Potere al Popolo, spacciandosi per uno studente fuori sede. Ha partecipato ad assemblee, mobilitazioni, attività militanti, fingendosi un attivista radicale. Fonti qualificate hanno poi negato si trattasse di un’operazione autorizzata, quasi fosse stata una bravata giovanile. Ma il suo fascicolo e la sua destinazione dicono altro.

Ben inteso, questi due casi nulla hanno a che fare con quello che la nuova legge introduce. Non sono coinvolti i servizi segreti né misure anti terrorismo. Ma sono sintomatici della tendenza sistematica a ricorrere all’undercover da parte di membri delle forze dell’ordine, con modalità, pretesti e in circostanze sempre più sui generis.

Contro lo Stato che fabbrica il nemico

Giorgia Meloni nel rispondere all’inchiesta Gioventù Meloniana che io e i miei colleghi realizzammo lo scorso anno sul movimento giovanile del suo partito, disse che l’undercover era un “metodo da regime”. È il rovesciamento della medaglia, come mettere in scena un pericolo per legittimare un potere.

Abbiamo già visto cosa succede quando lo Stato decide di fingersi terrorista per difenderci dai terroristi. Ed è uno scenario che non vorremmo rivedere. 

Al prossimo Debrief, 

Sacha e Luigi.

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