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Perché un’inchiesta undercover non vincerà mai (più) il Pulitzer
La storia dei giornalisti che comprarono un bar per incastrare gli ispettori corrotti

Non potevamo non inaugurare Debrief con il Mirage Tavern, l’inchiesta undercover più spettacolare di sempre, e con le vere ragioni per cui venne esclusa dal Premio Pulitzer, relegando il giornalismo undercover a un ruolo di serie B negli USA.
Questo numero è scritto da Sacha e editato da Luigi.
In questo numero di Debrief:
Ringraziamenti
Oggi è venerdì 18 aprile. Riceverai questa newsletter ogni settimana di venerdì perché è il giorno in cui, nell’ultimo anno, io e Luigi ci siamo sentiti al telefono per raccontarci le storie più assurde intercettate sui due lati dell’Oceano.
Debrief vuole essere un modo per farvi partecipare a quelle telefonate.
Prima di iniziare, vogliamo ringraziarti personalmente per esserti iscrittə a questa newsletter. Conosco unə per unə i nomi delle centinaia di persone che si sono già unite a noi: grazie davvero per il tuo sostegno. L’abbiamo cercato e faremo tutto il possibile per meritarcelo.
Per fare inchiesta devi saper fare i cocktail
Era il maggio del 1977 quando un uomo di 33 anni, con una cassetta degli attrezzi in mano, entrò in un bar diroccato alla periferia nord di Chicago. Fingendo di essere un elettricista, si avviò deciso verso il retro, come se dovesse riparare un guasto al quadro elettrico. In realtà non c'era nulla da riparare. Salì una scaletta, aprì una porticina e si infilò in uno stanzino nascosto sopra i bagni del locale, dove dietro una grata di aerazione aveva posizionato delle macchine fotografiche.
Il suo nome era Jim Frost, ed era parte di un gruppo di giornalisti che da giorni stava immortalando uno dei casi di corruzione più incredibili della storia degli Stati Uniti.

[Jim Frost e Gene Pesek nel Mirage Tavern, o – ci piace pensarlo – Luigi ed io se fossimo nati in bianco e nero] | Sun-Times file
Quel bar si chiamava Mirage Tavern, e non era un bar qualunque. Era stato acquistato pochi mesi prima dal giornale locale, il Chicago Sun-Times, insieme a una ONG, la Better Government Association, con un obiettivo preciso: documentare la corruzione sistematica degli ispettori comunali di Chicago, una città allora definita "un supermercato della corruzione".
Era una vera e propria trappola, un set cinematografico costruito per attirare funzionari corrotti e smascherare un sistema diffuso di tangenti, connivenze e omertà.

L’interno del Mirage Tavern, in alto a destra la postazione segreta | Jack Jordan / Sun-Times
L’idea era semplice: aprire un bar avrebbe inevitabilmente attirato l'attenzione di funzionari corrotti pronti a chiedere mazzette in cambio dei permessi per restare aperti. Così, dopo aver acquisito il locale, i giornalisti entrarono in azione. La giovane reporter Pam Zekman si finse l’intraprendente proprietaria, mentre il collega Zay Smith, senza alcuna esperienza dietro al bancone, assunse il ruolo di barista. Tutto questo mentre Jim Frost e Gene Pesek scattavano fotografie dall’alto, dalla loro postazione segreta, documentando ogni episodio di corruzione che si consumava al piano terra.

In ordine da sinistra: Jim Frost, Pam Zekman, Zay Smith, e Gene Pesek davanti al Mirage Tavern | Sun-Times file
«Non è facile condurre un bar e un'inchiesta giornalistica allo stesso tempo», ricordò la leggendaria Pam Zekman, che raccontò come doveva continuamente gestire clienti inferociti, perché Smith, il giornalista improvvisatosi barista, sbagliava puntualmente a fare i cocktail.
Il metodo della pesca all’aspetto
Il metodo che usarono era quello della “pesca all’aspetto”, una tecnica che richiede di restare immobili, completamente mimetizzati con l'ambiente circostante, attendendo che la preda si avvicini spontaneamente, attratta da un contesto che percepisce come familiare e sicuro.
Devi renderti invisibile, sparire tra le cose intorno a te, e aspettare. Sarà il pesce stesso a venire da te.
Così fecero i giornalisti del Mirage Tavern: camuffati da baristi e proprietari, aspettarono che fossero gli stessi ispettori comunali a venire spontaneamente a chiedere le mazzette. E così successe.
In pochi giorni il bar si trasformò nel palcoscenico di un incessante via vai di ispettori che chiedevano soldi per ignorare fili elettrici penzolanti, di ufficiali sanitari ben contenti di chiudere un occhio su scarichi che riversavano liquami direttamente nel seminterrato, e persino di tenenti dei vigili del fuoco che firmavano autorizzazioni senza neanche controllare le uscite di emergenza. Arrivarono addirittura alcuni commercialisti locali, pronti con entusiasmo a spiegare ai “proprietari” come evadere sistematicamente le tasse.

Lo scatto che immortala una tangente | Sun-Times file
In soli due mesi di attività, il Mirage raccolse una montagna di prove fotografiche e documentali che portarono alla pubblicazione di una serie esplosiva di 25 articoli, a partire dal gennaio del 1978, con immagini inequivocabili di ispettori colti sul fatto, con le tangenti ancora in mano.
Diciotto dipendenti pubblici vennero licenziati o sospesi, sconvolgendo la politica locale e scatenando una catena di riforme che raggiunse addirittura il livello federale.
«Non abbiamo fermato per sempre la corruzione a Chicago,» ricordò Pam Zekman, «ma siamo certi che i prossimi ispettori comunali, prima di accettare una tangente, ci penseranno due volte.»
“Fai undercover? E allora per te niente Pulitzer”
Sono un fan assoluto di questa storia ed è per questo che da mesi che importuno al telefono Pam Zekman (perdonami, Pam!), che per me è un po’ come riuscire a parlare direttamente con Nellie Bly.

Pam Zekman alle prese con il Mirage Tavern. Quando lo comprarono, il bar stava letteralmente cadendo a pezzi | Sun-Times file
Eppure, se non avete sentito parlare molto di questa storia, è proprio perché questa inchiesta non ha mai goduto della fama che meritava davvero.
Nel 1979 Zekman e il team del Chicago Sun-Times arrivarono in finale al Premio Pulitzer, ma due membri influenti della giuria si opposero duramente. Erano Ben Bradlee, celebre direttore del Washington Post dai tempi del Watergate, e Eugene Patterson del St. Petersburg Times.
Secondo loro, il giornalismo sotto copertura e l’uso di identità false violavano i principi fondamentali di trasparenza e onestà giornalistica.
Bradlee, in particolare, fu categorico: «Noi istruiamo i nostri reporter a non fingere mai di essere qualcuno che non sono. Assegnare questo premio avrebbe mandato il giornalismo su una strada sbagliata».
Patterson rincarò la dose affermando che il Mirage Tavern aveva elementi di «entrapment» (adescamento), come se i giornalisti avessero deliberatamente creato le condizioni che spingevano i funzionari alla corruzione.
La giuria del Pulitzer decise così di lanciare un messaggio forte e chiaro: i fini non giustificano automaticamente i mezzi. Il Mirage Tavern, da molti considerato il vincitore annunciato, fu escluso definitivamente per motivazioni etiche legate ai metodi usati dai giornalisti.
William Gaines, un giornalista investigativo che vinse ben due Pulitzer (il primo nel 1976 proprio con un’inchiesta undercover, e poi nel 1988 con un metodo tradizionale), ripensando a quella scelta, non usò mezzi termini: «Era una storia sensazionale, così grande e dirompente che molti dicevano "wow, possono dargliene due di Pulitzer?". Credo che il comitato Pulitzer non volesse permettere che l’undercover prendesse il sopravvento sul giornalismo tradizionale, ecco perché gli hanno tagliato le gambe. Questa è almeno la mia teoria. Volevano dire: "Torniamo al giornalismo convenzionale".»
E concluse, amareggiato: «Quella decisione segnò la fine del giornalismo investigativo undercover».
L’effetto a lungo termine di quell'esclusione fu pesante. Le grandi testate iniziarono ad abbandonare progressivamente il giornalismo sotto copertura, adottando codici etici sempre più restrittivi. Si moltiplicarono inoltre contenziosi legali, con cause per diffamazione spesso vinte proprio perché veniva condannato l’uso dell’inganno da parte dei giornalisti.
I direttori dei giornali iniziarono così a chiedersi: «Se un’inchiesta come questa non potrà mai vincere un Pulitzer e comporta così tanti rischi, ha davvero senso farla?»
La fine del giornalismo undercover?
Oggi negli Stati Uniti, il paese che ha inventato questo genere, il giornalismo undercover è relegato a un ruolo di serie B, se non peggio.
I principali quotidiani, dal New York Times in giù, ne vietano esplicitamente l’utilizzo ai propri giornalisti. Persino alla Columbia Journalism School, una delle più prestigiose scuole di giornalismo al mondo, fondata da Joseph Pulitzer (colui che commissionò alla leggendaria Nellie Bly la prima grande inchiesta undercover della storia), questo metodo viene guardato con grande sospetto.
Noi, invece, crediamo che il giornalismo undercover abbia ancora molto da dire.
È proprio per questo che siamo qui.
Ma per oggi ci siamo dilungati anche troppo.
Al prossimo Debrief,
Sacha e Luigi
CHI È ANDATO SOTTO COPERTURA DI RECENTE:
📍 Austria
Degli attivisti del collettivo ebraico antisionista di Vienna hanno incontrato sotto copertura l’ambasciatore israeliano in Austria, David Roet, hanno documentato alcune sue affermazioni che negano le uccisioni intenzionali di neonati da parte di Israele e che spingono sulla necessità di giustiziare i minori palestinesi coinvolti in conflitti armati.
Fonte: The Skwawkbox
📍 UK
Un’inchiesta undercover di BBC Africa Eye ha svelato come truffatori nel Regno Unito vendessero falsi certificati di sponsorizzazione a migranti africani in cerca di lavoro, lasciandoli indebitati e senza tutele. Una rete di sfruttamento costruita sulla disperazione, documentata attraverso il metodo undercover.
Fonte: BBC Africa Eye
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