Quanto a lungo si può vivere sotto copertura?

Una conversazione con Ronald Fino, figlio di un boss mafioso diventato agente sotto copertura per FBI e CIA

Quando pensiamo al lavoro sotto copertura, immaginiamo incarichi brevi – qualche mese pericoloso passato fingendo di essere qualcun altro. Ma quali sono i limiti di una vita costruita sulla finzione? Quanto a lungo può vivere una persona senza una vera identità? Ronald Fino potrebbe conoscere la risposta.

Ha passato gran parte della sua vita, più di 35 anni, vivendo sotto copertura, infiltrandosi in gruppi della criminalità organizzata in decine di paesi. La sua è una di quelle storie di cui non ti stanchi mai di ascoltare.

Oggi è venerdì 16 maggio e, insieme a questa newsletter, pubblichiamo un nuovo episodio di Debrief – The Undercover Podcast, dove potete ascoltare la nostra conversazione con Ron Fino, registrata solo pochi giorni fa:

Questo numero è scritto da Sacha ed editato da Luigi.

Dragon Ball

Se ricordo bene, nel cartone Dragon Ball, quando Goku combatte contro altri personaggi, la sua energia cresce perché durante il combattimento assorbe quella dei suoi avversari. Mi piace pensare che qualcosa di simile accada quando intervistiamo persone che hanno vissuto vite straordinarie: in qualche modo, una parte della loro energia passa a noi.

Ogni volta che ho ascoltato la storia di Ron Fino, ho provato esattamente quella sensazione, come se le sue esperienze, la sua incredibile vita, mi ricaricassero. Mettiamo subito in chiaro una cosa: Ron non è un giornalista. Ed è giusto che questi due mondi rimangano separati, perché le intenzioni di un giornalista sono del tutto diverse da quelle di un agente di polizia o di un operativo dell’FBI e della CIA come Ron. Il compito di un giornalista tanto per incominciare non è far arrestare qualcuno.

Tuttavia, ho voluto invitare Ron nella nostra newsletter non solo perché ha molto da insegnare a chiunque voglia lavorare sotto copertura — giornalisti o meno — ma anche perché credo che Ron abbia superato ogni limite umano immaginabile su quanto a lungo si possa vivere sotto copertura.

Una vita sotto mentite spoglie

«A loro non importava nulla delle persone innocenti. Io ho sempre avuto a cuore i lavoratori, gli innocenti», mi ha raccontato Fino, spiegando perché decise di tradire la Mafia e collaborare con l’FBI. Una defezione improbabile. Ronald Fino era nato dentro la mafia: suo padre era un caporegime della famiglia mafiosa di Buffalo. Eppure, da adolescente, alla fine degli anni Sessanta, Fino fece una scelta radicale. Si candidò come responsabile del sindacato dei manovali locali, deciso a fermare lo sfruttamento che la mafia faceva degli iscritti al sindacato. A soli 20 anni, iniziò segretamente a passare agli agenti dell’FBI informazioni su quei mafiosi che si fidavano di lui come di uno dei loro. Quello che era nato come un atto di coscienza giovanile si sarebbe trasformato in una vocazione clandestina destinata a consumargli la vita.

Dan Sansanese Jr. (a sinistra), Ron

Dalle sedi sindacali di Buffalo ai teatri di crisi più lontani, Fino ha vissuto un’esistenza da camaleonte. Negli anni ’70 e ’80, il suo incarico ufficiale come leader sindacale – unito al suo sangue mafioso – era la copertura perfetta per infiltrarsi in Cosa Nostra. I mafiosi vedevano in lui un alleato affidabile. In quegli anni non portava microfoni nascosti (troppo rischioso, se scoperto): si limitava a memorizzare le conversazioni e poi trasmettere con discrezione le informazioni all’FBI. Il suo lignaggio mafioso spesso lo proteggeva. Una volta un affiliato sospettoso tentò di perquisirlo per cercare una microspia. Fino reagì con finta indignazione, interpretando la parte del “principe offeso” della mafia – e l’altro, intimidito dal timore reverenziale verso il padre di Fino, fece marcia indietro.

Ron Fino era disposto a spingersi agli estremi per salvare la propria copertura e guadagnarsi la fiducia di quelli che facevano parte dell'ambiente che doveva indagare. In un’occasione, accettò persino di dichiararsi colpevole in tribunale per un reato. Si trattava di un’accusa minore, concordata in segreto con un giudice e il Dipartimento di Giustizia, che doveva farlo apparire come un normale sindacalista corrotto e non come una talpa dell’FBI. Il piano funzionò: dopo la condanna, nel mondo criminale erano tutti convinti che Fino fosse uno di loro. Fingere di essere un criminale fu un prezzo tutto sommato basso da pagare pur di non compromettere la copertura e dunque la missione.

Ma la carriera sotto copertura di Ron Fino non finì con la Mafia di Buffalo. Negli anni ’90, FBI e CIA lo inviarono all’estero per infiltrare reti criminali internazionali. Si finse trafficante d’armi, mediatore, uomo d’affari – assumendo ogni volta un’identità diversa, a seconda delle esigenze. Incontrò mafiosi russi a Mosca e Minsk, trattando armi di contrabbando. Si mosse nel dietro le quinte dei teatri di guerra del Medio Oriente, avvicinando fornitori legati al terrorismo fingendosi acquirente. In certi casi, la sua attività clandestina si intrecciava con la geopolitica: una volta tentò persino di fare da intermediario in  un accordo di pace durante un colpo di Stato in Gambia, come parte della sua copertura. A suo dire, ha girato il mondo tre volte in missioni sotto copertura. Ogni nuova operazione metteva alla prova i limiti delle identità che si era costruito – e della sua stessa capacità di resistere.

Ron con l’agente del KGB Gennady Vasalinko (nel mezzo) e l’agente della CIA Jack Platt (destra)

Quanto a lungo può una persona fingere di essere qualcun altro? Nel caso di Ronald Fino, molto più a lungo di quanto chiunque avrebbe immaginato.

Fuori dall’ombra

«Non hai mai una vita normale… quella sensazione non scompare mai… Se avessi una vita normale, me ne starei a fare giardinaggio», ha ammesso Fino, riflettendo sul peso degli anni trascorsi sotto copertura. Dopo decenni nell’ombra, tornare a una vita ordinaria fu tutt’altro che semplice. Nel gennaio del 1989, la sua doppia identità vacillò. La mafia di Buffalo scoprì il suo tradimento — e mise una taglia sulla sua testa. Un contatto fidato lo avvertì: i suoi stessi “amici” mafiosi avevano deciso di farlo fuori per aver fatto la spia. Quella stessa notte, Fino fuggì da Buffalo con addosso solo i vestiti che indossava. Protetto dall’FBI, scomparve dal mondo che conosceva, lasciandosi alle spalle la casa, il lavoro, persino la famiglia. «Costretto a sradicare la mia vita, a lasciare amici, persone care e l’unica vita che conoscevo», è così che descrisse quel momento. Il Bureau gli assegnò una nuova identità e lo spostò tra case sicure e basi militari, dove i sicari non avrebbero potuto trovarlo facilmente.

Il mentore di Ron, Dick Stolz, CIA

Questo esilio improvviso lo gettò in una spirale emotiva. Dopo anni di operazioni ad alta adrenalina, l’isolamento lo colpì duramente — cadde per mesi in depressione e confusione, alle prese con la solitudine e la paura che da quel momento avrebbero segnato le sue giornate. I costi personali di quella lunghissima messa in scena si fecero dolorosamente evidenti. Fino aveva una moglie e dei figli a Buffalo, ma non poteva più nemmeno rischiare di contattarli. « Vedo i miei figli una volta l’anno, se mi va bene», avrebbe detto in seguito, sottolineando quanto raramente riuscisse a stare con la sua famiglia mentre c’era qualcuno là fuori che forse lo stava cercando per ucciderlo. Anche i piaceri più banali gli erano negati — per anni non poté neppure camminare per strada o prendere un caffè in pubblico senza voltarsi continuamente a guardarsi le spalle. Ogni giorno viveva con la consapevolezza che un mafioso assetato di vendetta poteva essere sulle sue tracce.

Al pericolo fisico si aggiunse uno stigma sociale schiacciante. Nel mondo chiuso della mafia, nulla è disprezzato quanto un traditore. Quando la collaborazione di Fino divenne pubblica, molti dei suoi vecchi amici, colleghi e persino parenti lo rinnegarono. Persone che conosceva da una vita lo vedevano ora come un reietto, colpevole di aver infranto il codice del silenzio. Non importava che lo avesse fatto per proteggere gli innocenti — ai loro occhi era comunque un traditore. Fino capiva che alcuni sindacalisti lo evitavano per paura (chiunque gli fosse vicino poteva essere sospettato dalla mafia), ma il dolore era reale. Aveva sacrificato tutto per fare ciò che riteneva giusto, e alla fine si era ritrovato emarginato e solo. «Sono stato abbandonato e considerato un paria», disse riferendosi a quegli anni.

Col tempo, l’ira della mafia si placò e l’FBI decise che Fino poteva riprendere una parvenza di vita normale. Verso la fine degli anni ’90, gli dissero che i suoi servizi sotto copertura non erano più necessari e, di fatto, lo congedarono. Ma ricominciare da capo fu un’impresa a parte. Fino viveva ormai con un nome inventato e praticamente senza passato — o almeno nessuno che potesse rivelare. Faticava a trovare un lavoro, perché non aveva un vero curriculum da mostrare. Come spiegare 25 anni di vita trascorsi tra documenti riservati e identità fittizie? «Un nome nuovo non bastava per trovare lavoro», scrisse poi; quella falsa identità aveva “praticamente nessuna storia su cui fare affidamento”.

Mr. Undercover

Fino riuscì a ritrovare un equilibrio lavorando come investigatore privato e raccontando la sua storia in un memoir dal titolo che non lascia adito ad equivoci: Mr. Undercover, un titolo che dall’alto della nostra newsletter ci sentiamo di dire che si  è meritato. 

Oggi Ronald Fino ha superato i settant’anni e può finalmente parlare apertamente delle sue imprese sotto copertura, certo, senza andare troppo nel dettaglio di alcune cose. Ha un tono di voce pacato, ironico, e scherza dicendo di essere ancora “al verde” perché non ha mai fatto soldi con la mafia. «Preferisco così, piuttosto che rubare i soldi dei miei amici», dice parlando della sua pensione modesta.

Ron con i suoi nipotini

Eppure, le vecchie abitudini sono dure a morire. Fino rimane cauto, vigile, sempre attento a chi ha davanti. L’ombra della sua vita precedente non lo ha mai davvero lasciato. «Non hai mai una vita normale», mi ha detto scuotendo la testa. I ricordi e le cicatrici di decenni sotto copertura lo accompagneranno per sempre.

Una scuola di undercover

La carriera di Fino sotto copertura è durata quasi quarant’anni. Per non inciampare nella sua stessa rete di menzogne, imparò presto una regola fondamentale della doppia vita: «Devi restare il più vicino possibile alla verità, perché tutti, prima o poi, sbagliano». In altre parole, più la sua identità fittizia somigliava a quella reale, meno rischiava di fare errori. Mantenere quell’equilibrio fragile per decenni richiedeva una vigilanza costante. Fino paragona l’esperienza al combattimento: trattieni la paura mentre sei in azione e «poi, quando sei solo… ti metti a tremare», ha detto. «È come essere un soldato in guerra: fai quello che devi fare, e solo dopo ti rendi conto di quanto eri vicino alla morte».

Ron con sua moglie Alla in Minsk, Bielorussia

Curiosamente, Fino ammira i giornalisti che si infiltrano per smascherare il crimine, ma li invita alla massima prudenza. «I giornalisti vengono uccisi. Lo vedi cosa succede. Ne ammazzano tanti se si spingono troppo oltre», avverte. A differenza di un agente dell’FBI, un reporter non ha né un distintivo, né un’agenzia alle spalle pronta a salvarlo. Il suo consiglio a chi sceglie l’infiltrazione come tecnica investigativa è semplice: minimizzare la menzogna. Il suo è un consiglio prezioso: la finzione è un gioco pericoloso — usala con parsimonia e non perdiamo mai di vista la verità.

La storia di Ronald Fino è una delle più estreme, la sua odissea da infiltrato ha messo alla prova i limiti della lealtà, dell’identità e della resistenza umana. 

La vita di Fino potrà essere unica, ma le domande che solleva — fin dove saremmo disposti a spingerci per fare la cosa giusta, e quale prezzo siamo disposti a pagare — sono universali.

E se volete ascoltare Ronald Fino raccontare la sua storia con la sua voce, non perdetevi la nostra conversazione completa nel podcast di questa settimana:

Al prossimo Debrief
Luigi e Sacha

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