Palestinese come me: il giornalista israeliano che si infiltrò a Gaza

"Io, il mio nemico" – i sei mesi sotto copertura di Yoram Binur nella Palestina occupata

La storia che racconteremo in questo numero sembra attuale ma in realtà non lo è. 

A metà degli anni ’80, un giornalista isreaeliano, ex tenente dell’unità paracadutisti, decise di travestirsi da operaio palestinese e per sei mesi sperimentò sulla propria pelle la vita quotidiana dei palestinesi sotto l’occupazione israeliana.

Grazie ai suoi tratti mediorientali e ad un arabo quasi perfetto, superò sospetti e posti di blocco, e attraversò indisturbato i muri che separano le due società.

Un’operazione che oggi non sarebbe neanche lontanamente possibile. Eppure crediamo che, anche solo confrontandola col presente, questa storia abbia ancora qualcosa da dirci. 

Questo numero è scritto da Sacha ed editato da Luigi.

Sotto copertura a Gaza negli anni ’80

Nel 1986 il giornalista israeliano di Gerusalemme, Yoram Binur, andò sotto copertura in Palestina. 

Assunse un nome fittizio, Fat’hi Awad, si presentò come un palestinese originario del campo profughi di Balata (nel nord della Cisgiordania), in cui la famiglia si sarebbe rifugiata nel 1948 e disse di essere rientrato dopo un periodo di studi negli Stati Uniti.

Binur decise di iniziare la sua esperienza proprio nella Striscia di Gaza, già all’epoca sotto l’occupazione militare israeliana e teatro di forti tensioni sociali. 

Si stabilì nel campo profughi palestinese di Jabalia, alla periferia di Gaza City, dove visse per circa un mese. Per rendere credibile la sua nuova identità, Binur vestiva con abiti da lavoro e portava i tipici sandali di gomma usati dai lavoratori palestinesi; girava con un giornale in arabo spiegazzato sotto il braccio e un cestino da operaio contenente un pacchetto di sigarette locali (della marca palestinese Farid). Binur curò ogni dettaglio: imparò come tenere il bicchiere da tè, come camminare e salutare in modo credibile secondo le usanze locali, e partecipò anche alle pratiche religiose in moschea.

Linguisticamente, parlava un arabo palestinese fluente e, quando doveva usare l’ebraico, fingeva un registro semplice e fortemente accentato. Nella quotidianità si presentava come un manovale palestinese di origini umili, pronto ad accettare un lavoro sottopagato pur di guadagnare qualcosa. Alloggiava in condizioni spartane all’interno del campo, condividendo la routine dura dei rifugiati di Jabalia. Qui fece amicizia con diversi abitanti locali, guadagnandosi la loro fiducia a poco a poco, e incrociò anche figure in vista nelle strutture della resistenza, come alcuni membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), una fazione della OLP di ideologia marxista-rivoluzionaria che nel campo portava avanti attività politiche e organizzative contro l’occupazione.

Ma più entrava in contatto con le persone del posto più attirava sospetti su di sé. In più occasioni Fat’hi venne interrogato su elementi della fede islamica e della cultura araba. Ad esempio, dei militanti del FPLP gli chiesero di recitare a memoria i primi versetti del Corano davanti a loro – un test improvvisato per smascherare se fosse una spia israeliana. Binur, forte dei suoi studi di arabo e religione, riuscì a rispondere correttamente alle domande, dissipando i sospetti più immediati.

L’occupazione militare rendeva Gaza una polveriera e il suo ruolo era in bilico per definizione: ogni giorno passato a Jabalia per lui fu un delicato equilibrio tra l’autocontrollo e la costante paura di essere scoperto.

Per gestire questi rischi, Binur aveva pianificato anche delle contromisure estreme. Si era procurato documenti di copertura e appoggi sia israeliani che palestinesi. Ottenne persino una lettera firmata da Faisal Husseini – all’epoca un influente politico palestinese a Gerusalemme – che attestava la sua vera identità e le sue vere intenzioni. Quella era la sua polizza per la vita nel caso fosse stato smascherato: il biglietto di Husseini spiegava che Fat’hi Awad non era un vero palestinese ma neppure una spia nemica, bensì un reporter che voleva raccontare la condizione dei palestinesi sotto l’occupazione.

Nel campo profughi di Jabalia, Yoram Binur si trovò immerso in condizioni di vita estreme: migliaia di persone erano stipate in spazi angusti, intere famiglie vivevano in baracche fatiscenti, prive di servizi essenziali adeguati. La quotidianità dei palestinesi era un costante susseguirsi di ostacoli: anche semplici attività come trovare e mantenere un lavoro, provvedere alla propria famiglia o muoversi liberamente erano rese quasi impossibili da restrizioni burocratiche, posti di blocco e regolamenti definiti dallo stesso Binur come appartenenti a un sistema “da apartheid”. 

Lui stesso, sotto copertura come palestinese, subì personalmente soprusi, interrogatori arbitrari, furti di salario da parte di datori di lavoro israeliani, offese e insulti razzisti, constatando quanto frequenti fossero ogni tipo di abusi.

Sei mesi dall’altra parte

Nei panni di Fat’hi Awad, Binur trascorse sei mesi vivendo e lavorando come un palestinese tra Israele e i Territori occupati. Cambiò diversi lavori umili: fu aiuto-cuoco in una sala matrimoni di Tel Aviv, sguattero in un caffè, meccanico in un’autofficina, manovale in un kibbutz. Lavorava in nero per pochi spiccioli, senza tutele, come tanti palestinesi costretti a cercare impiego oltre la Linea Verde

L’esperimento sotto copertura fornì a Binur non solo uno sguardo sull’universo palestinese, ma anche uno specchio impietoso sul potere degli israelianisé stesso compreso

Anni prima, durante il servizio militare obbligatorio, Binur era stato ufficiale a Ramallah, in Cisgiordania. Nel libro racconta un episodio che gli fece aprire gli occhi: una sera di coprifuoco afferrò alcuni giovani palestinesi che infrangevano le restrizioni e li picchiò duramente. Poche ore dopo, durante lo stesso coprifuoco, intercettò una donna palestinese disperata che vagava cercando medicinali per il marito malato; colto da compassione, l’aiutò a trovare le medicine e rincasare senza essere vista dalle pattuglie. 

A distanza di tempo, Binur rifletté su quella schizofrenia morale – brutalità e bontà nello stesso giorno, dalle stesse mani – e arrivò a un’amara conclusione: «Che si commettano violenze brutali o atti di gentilezza, la sensazione è la stessa – è la sensazione del potere che si ha sugli altri». In quelle parole c’è tutta la dinamica dell’occupazione: chi la esercita può scegliere se infierire o mostrarsi magnanimo, ma in entrambi i casi impone la propria supremazia.

Questa consapevolezza tormentò Binur. Anche mentre si fingeva Fat’hi, sapeva di appartenere in realtà al lato dominante. Ogni paio di settimane il peso psicologico del mantenere la sua copertura diventava insostenibile e così faceva delle pause tornando nella sua vera casa a Gerusalemme per qualche giorno, riprendendo fiato nella sua confortevole vita da israeliano prima di tornare “sul campo”. Poteva smettere quando voleva, poteva interrompere l’incubo con un semplice gesto – togliersi i vestiti sporchi, mostrare la sua vera carta d’identità – mentre i palestinesi intorno a lui non avevano quel lusso.

Il libro che Israele non ha mai letto

Grazie alla sua immersione, Yoram Binur comprese “quanto poco noi [israeliani] capiamo di ciò che succede nelle comunità arabe”. Questa presa di coscienza – unita alle ingiustizie quotidiane che aveva osservato – lo portò a prevedere l’imminente esplosione di rabbia palestinese. Binur non si sorprese affatto quando, poco tempo dopo, scoppiò la Prima Intifada (la rivolta popolare palestinese iniziata a Gaza nel dicembre 1987), perché aveva già visto con i propri occhi le tensioni e la frustrazione giunte a un punto di non ritorno.

Tornato nei panni di giornalista israeliano, Yoram Binur raccolse tutte le sue esperienze e riflessioni nel libro “My Enemy, My Self” (pubblicato nel 1989). In quelle pagine ha raccontato dettagliatamente la sua vita da infiltrato. Il suo resoconto – tradotto in otto lingue – ha contribuito a far conoscere al pubblico occidentale la realtà di Gaza e dei campi profughi negli anni ’80, rivelando il trattamento riservato ai palestinesi e mettendo in luce il lato umano di un popolo spesso ridotto a “nemico” senza volto.

Il volume uscì nel 1989 direttamente in inglese, pubblicato negli Stati Uniti, e fu presto tradotto in molte lingue – italiano compreso, con il titolo Io, il mio nemicoma curiosamente non in ebraico, lingua nella quale pure era stato scritto originariamente da Binur. Il pubblico israeliano per il quale l’opera era pensata non ebbe mai un’edizione nella propria lingua (ancora oggi è disponibile solo in traduzione). 

Questa mancata pubblicazione in patria forse la dice lunga sul clima di quell’epoca, ma anche di quelle successive: a fine anni ’80, con la Prima Intifada in corso, un libro in cui un israeliano “si travestiva” da palestinese e definiva implicitamente Israele uno Stato che pratica forme di segregazione avrebbe avuto vita difficile sugli scaffali locali. Binur stesso, da giovane idealista, sperava di scuotere le coscienze in patria, ma dovette accontentarsi di un pubblico internazionale.

All’estero, My Enemy, My Self fece rumore e attirò l’attenzione della critica, anche se non sempre in termini lusinghieri. Il Washington Post lo definì «un libro che colpisce duro sul piano emotivo, ma deludente e superficiale sotto molti aspetti». 

La sua couvade da palestinese durò sei mesi intensi ma relativamente brevi; non subì mai l’esperienza estrema della tortura, non fu mai arrestato, interrogato e sbattuto in prigione per mesi, né perse familiari e amici sotto i colpi dell’esercito – realtà drammatiche che segnano in modo indelebile la vita dei palestinesi. 

In definitiva, lui stesso ammise nell’epilogo di non avere “conclusioni di vasta portata” da offrire – nessuna soluzione facile, solo lo sconfortante quadro di un “mondo da cani” in cui aveva fatto da osservatore partecipe.

Black Like Me e i dilemmi dell’empatia travestita

L’idea di travestirsi da Altro per comprendere l’esperienza di un gruppo oppresso non era nuova. Nel 1959 lo scrittore americano John Howard Griffin si era tinto la pelle di nero e aveva viaggiato per gli Stati segregazionisti del Sud, raccontando nel celebre libro Black Like Me le umiliazioni quotidiane subite dai neri. 

Nel libro di Binur non c’era il problema del colore della pelle – israeliani e palestinesi sono indistinguibili, – ma Binur stesso riconobbe questa somiglianza di intenti: come Griffin cercò di risvegliare la coscienza dei bianchi americani, lui voleva far aprire gli occhi agli israeliani sulle ingiustizie che preferivano negare. Il risultato fu una testimonianza in presa diretta che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto generare empatia: mostrando al lettore israeliano “come ci si sente dall’altra parte”.

Ma travestirsi da oppresso è un gesto controverso, ieri come oggi. Se da un lato operazioni del genere portano alla luce verità scomode, dall’altro sollevano accuse di appropriazione culturale. Così come Griffin fu criticato per aver potuto togliersi la tinta nera dopo poche settimane, anche a Binur molti rimproverarono la natura “a tempo determinato” del suo esperimento. 

Alcuni critici trovarono insultante l’idea stessa: Binur pretendeva di insegnare qualcosa su un dolore che i palestinesi raccontavano già in prima persona da anni: possibile che per credere alla sofferenza palestinese dovesse dircelo un israeliano? Perché le denunce degli stessi palestinesi non bastavano a smuovere le coscienze?

Secondo altri critici, invece, questo tipo di indagini, per quanto discutibili, possono fungere da “ponte”. Un membro del gruppo dominante che parla ai propri simili ha forse maggior possibilità di farsi ascoltare, abbattendo almeno in parte il muro di diffidenza. 

Nel suo caso, come notò una rivista accademica, Binur rese un servizio alla causa palestinese proprio in quanto ebreo rivolto ad altri ebrei diffidenti: “aiuta a confermare, chiarire e catalogare la gamma di ingiustizie che i palestinesi subiscono (e che loro stessi denunciano)”, convincendo lettori israeliani che altrimenti sarebbero rimasti increduli di fronte alle sole testimonianze palestinesi. Resta il fatto che si tratta di un equilibrio delicato: dare voce a chi non ne ha può facilmente trasformarsi in togliere spazio alle voci originarie.

Dalla prima linea all’officina: l’addio al giornalismo

Dopo My Enemy, My Self, Yoram Binur continuò la sua carriera giornalistica ancora per diversi anni, diventando uno dei volti noti del reportage sull’universo arabo in Israele. Negli anni ’90 e 2000 lavorò come corrispondente di punta per la tv israeliana Canale 2, seguendo da vicino gli avvenimenti in Cisgiordania e nel mondo arabo in generale. Eppure, col passare del tempo, qualcosa si incrinò nel suo rapporto con il mestiere. Nel 2008, Binur sparì dai teleschermi. Intervistato di recente, alla domanda se gli mancasse seguire l’attualità, ha risposto senza esitazioni: «Mi manca fare il reporter? No, per niente».

Si reinventò così in una veste del tutto nuova: quella di meccanico di motociclette in  una piccola officina a Tel Aviv. Oggi, poco più che sessantenne, vive nel quartiere Shapira di Tel Aviv, una zona popolare e dai tratti multietnici, conduce una vita semplice, lontana dalle élite mediatiche. Binur non ha mai abiurato le sue idee né rinnegato le sue esperienze, ma ha scelto il silenzio mediatico

Un’altra epoca, un altro giornalismo

La storia di Yoram Binur e del suo travestimento da palestinese appartiene ormai a un’altra epoca. A distanza di quasi quarant’anni, il contesto mediatico e politico è radicalmente cambiato – e non in meglio. Oggi, un giornalista che volesse ripetere un’impresa simile si scontrerebbe con barriere quasi insuperabili

Dal 7 ottobre 2023, entrare fisicamente nella Striscia per un osservatore esterno è impossibile. Le autorità israeliane, salvo rarissime eccezioni organizzate a scopi propagandistici, vietano l’accesso ai giornalisti stranieri a Gaza

La conseguenza è un blackout quasi totale: solo i giornalisti palestinesi che già si trovavano all’interno – e che vivono essi stessi sotto le bombe – documentano ciò che accade, a rischio della vita. 

Secondo diverse organizzazioni internazionali, sono oltre 200 i giornalisti uccisi nella sola Striscia di Gaza in meno di due anni. Molti di loro sono morti mentre indossavano giubbotti con la scritta “PRESS”, colpiti durante i bombardamenti. Quasi tutti erano palestinesi, perché nessun altro reporter internazionale ha potuto entrare a testimoniare direttamente sul campo. 

In questo quadro devastante, il tentativo di entrare in contatto con l’umanità dall’altra parte del muro, oggi appare semplicemente impossibile. Eppure, una lezione rimane da questa storia: un israeliano travestito da palestinese provò a guardare negli occhi il suo “nemico” e trovò se stesso.

Al prossimo Debrief,
Luigi e Sacha

Se hai consigli, domande, segnalazioni (o insulti), scrivici per email a:
👉 [email protected]

Se questa newsletter ti è piaciuta, passala agli amici con questo link:
👉 https://debrief-newsletter.beehiiv.com/

Questo è il nostro Instagram, ogni tanto caricheremo delle cose diverse dalla newsletter:
👉 https://www.instagram.com/debrief_undercover/

Abbiamo anche iniziato un podcast, con interviste agli autori di inchieste undercover memorabili:
👉 https://open.spotify.com/show

E se proprio non ti basta, c'è anche il nostro canale Telegram dove possiamo continuare la conversazione:
👉 https://t.me/debrief_undercover

Reply

or to participate.