Una fuga da film a Teheran: quando una copertura salvò la vita a sei diplomatici statunitensi

Dal “Canadian Caper” del 1980 alla diplomazia degli ostaggi: una lunga storia di tensioni e spie.

Per dodici notti consecutive, a Teheran le sirene antiaeree hanno risuonato tra le strade di una capitale sotto attacco. La città è stata colpita da raid israeliani di intensità senza precedenti. In due settimane di bombardamenti, secondo le autorità iraniane, almeno 627 persone sono morte e quasi 5.000 sono rimaste ferite.

Il sentore che qualcosa stesse per accadere era arrivato pochi giorni prima dell’inizio degli attacchi, quando il Dipartimento di Stato americano aveva ordinato al personale non essenziale dell’ambasciata di lasciare il Paese. 

Un segnale che ha subito evocato un precedente nella storia iraniana: nel novembre 1979, nel pieno della rivoluzione islamica, un gruppo di studenti rivoluzionari prese d’assalto l’ambasciata USA a Teheran e sequestrò 52 diplomatici americani, tenendoli in ostaggio per 444 giorni.

Ma durante l’assalto all’ambasciata, sei diplomatici americani riuscirono a fuggire e a nascondersi per settimane, fino a essere esfiltrati in una delle operazioni sotto copertura più rocambolesche della Guerra Fredda, nota come Canadian Caper.

In questo numero di Debrief, vi raccontiamo quella storia incredibile, attraverso qualche aneddoto meno noto di una vicenda diventata famosa dopo l’uscita del film di fiction “Argo”

Questo numero è scritto da Sacha ed editato da Luigi.

Alle radici della crisi degli ostaggi

Nel febbraio del 1979 l’Ayatollah Ruhollah Khomeini era rientrato in Iran dopo quindici anni di esilio per guidare la fase finale della Rivoluzione islamica che portò alla caduta dello Scià Mohammad Reza Pahlavi, storico alleato degli Stati Uniti. Il 1º aprile 1979, dopo un referendum, venne proclamata ufficialmente la Repubblica Islamica dell’Iran. 

Il nuovo regime teocratico vedeva negli USA il “Grande Satana”, e non aveva dimenticato il colpo di Stato orchestrato dalla CIA nel 1953 per rovesciare il primo ministro democratico Mossadeq. Quando, nell’autunno, gli Stati Uniti accolsero lo Scià per cure mediche, a Teheran fu vissuto come un affronto e il preludio a una possibile restaurazione monarchica filo-occidentale. Il 1º novembre Khomeini accusò gli USA di complotto e tre giorni dopo scattò l’assalto.

Il 4 novembre centinaia di studenti rivoluzionari entrarono nell’ambasciata americana a Teheran e presero in ostaggio i 52 diplomatici che vennero bendati, mostrati in televisione, e trasformati in leva politica. I sequestratori chiedevano l’estradizione dello Scià, rifugiatosi negli USA, e l’immediata fine di ogni ingerenza americana in Iran.

Ostaggi

Per l’amministrazione Carter fu un incubo diplomatico e mediatico. Ogni scelta appariva perdente: trattare con il nuovo regime rischiava di legittimarlo, usare la forza militare si rivelò fallimentare (come dimostrò il disastro dell’Operazione Eagle Claw, nell’aprile 1980). 

La crisi si concluse solo nel gennaio 1981, con la firma degli Accordi di Algeri, poche ore dopo l’insediamento di Ronald Reagan, che prevedevano, tra l’altro, lo sblocco di miliardi di dollari di beni iraniani congelati e l’impegno americano a non interferire negli affari interni dell’Iran. 

Eppure, in mezzo a quella crisi globale, c’è una storia che si svolse nell’ombra. Quella dei sei diplomatici americani che riuscirono a sfuggire all’assalto all’ambasciata e a lasciare il Paese grazie a un’operazione sotto copertura così improbabile da sembrare scritta a Hollywood. Ed è da lì che infatti parte questa storia.

Hollywood a Teheran, la grande fuga del Canadian Caper

Quando nel 1979 gli studenti filogovernativi prendono d’assalto l’ambasciata degli Stati Uniti, sei diplomatici americani sgattaiolano fuori da un’uscita secondaria mentre i loro colleghi vengono legati e bendati dai Guardiani della Rivoluzione. 

Sono Robert Anders, Cora e Mark Lijek, Joseph e Kathleen Stafford e Henry Lee Schatz. In seguito ribattezzati i “Canadian Six”.

I sei funzionari fuggitivi


Per alcuni giorni i sei fuggitivi vagano per Teheran cambiando rifugio ogni notte. Un cuoco thailandese dell’ambasciata li aiuta a trovare ripari di fortuna. Devono muoversi di giorno confondendosi tra la folla, perché dopo il coprifuoco ogni posto di blocco sarebbe un rischio. 

Dopo sei giorni allo sbando, uno dei diplomatici in fuga, Robert Anders, contatta un amico fidato: John Sheardown, un funzionario canadese di base a Teheran. Alla domanda se può dare una mano, Sheardown non esita: "Cosa vi ha trattenuti così a lungo? Ma certo che potete venire." Da quel momento inizia un’operazione segreta congiunta tra Canada e Stati Uniti destinata a entrare nella storia.

Il funzionario Sheardown e l’ambasciatore canadese in Iran, Ken Taylor, dividono i sei americani tra le loro due residenze diplomatiche, dove gli americani rimarranno nascosti per 79 giorni. I canadesi rischiano grosso ad aiutare i fuggitivi: se i rivoluzionari scoprissero che li stanno proteggendo, l’intera loro ambasciata potrebbe essere presa d’assalto e loro considerati complici delle “spie americane”.

L’ambasciatore Ken Taylor, dal canto suo, porta avanti il suo lavoro diplomatico come se nulla fosse. Va in ufficio ogni giorno trattando con lo stesso governo rivoluzionario che tiene in ostaggio i suoi colleghi americani e intanto coordina nell’ombra i contatti segreti con Washington. 

La tensione in quei giorni è altissima. Se a Teheran il regime dovesse accorgersi che “all’appello mancano” alcuni americani, partirebbe una gigantesca caccia all’uomo.

È a questo punto che entra in scena Tony Mendez, un agente della CIA esperto in operazioni sotto copertura. A Langley, il quartier generale della CIA, si valutano da settimane vari piani per tirare fuori i sei. Mendez ne propone uno talmente folle che nessuno crede possa funzionare.

Tony Mendez e Ben Affleck che lo impersona nel film

L’idea è far uscire gli americani dall’Iran fingendo che fossero una troupe cinematografica canadese in viaggio a Teheran per cercare location esotiche per un film fantascientifico immaginario, dal titolo Argo. È un’idea talmente inverosimile da risultare paradossalmente credibile. “Credevo che dovessimo cercare di ideare una copertura così esotica che nessuno potesse immaginare che fosse usata per scopi operativi.” dice Mendez. E poi è pulita: niente incursioni militari, niente scontri a fuoco. 

Washington dà luce verde: “IL PRESIDENTE HA APPENA APPROVATO L’AUTORIZZAZIONE. POTETE PROCEDERE CON LA VOSTRA MISSIONE A TEHERAN. BUONA FORTUNA,” recita il messaggio cifrato con cui Jimmy Carter in persona approva la missione

Mendez si mette al lavoro con zelo maniacale. A Hollywood recluta un vero truccatore di film, John Chambers (celebre per il film Il pianeta delle scimmie), e insieme allestiscono una finta casa di produzione chiamata “Studio Six Productions”. Affittano uffici veri (nei vecchi studi della Columbia Pictures) e attivano linee telefoniche reali, pronte a rispondere a chiunque chiami per chiedere del film in progetto. Con la complicità di alcuni insider, pubblicano annunci su riviste specializzate (Variety e Hollywood Reporter) e stampano poster e biglietti da visita per pubblicizzare Argo, il fantomatico film da girare in “estetica medio-orientale”. 

La trama di Argo viene “presa in prestito” da un vero progetto di fantascienza abbandonato anni prima, Lord of Light di Roger Zelazny, opportunamente adattato per sembrare girabile in Iran, vengono persino inseriti richiami positivi all’Islam nella trama. 

Il governo del Canada emette autentici passaporti canadesi per i sei americani con identità di copertura (una decisione approvata con un ordine speciale del Consiglio dei ministri canadese, riunito in seduta segreta). I canadesi aggiungono altre astuzie: consegnano a una degli ostaggi, Cora Lijek, una copia fresca di Variety con l’annuncio di Argo, da esibire in caso di dubbi all’aeroporto.

Tony Mendez vola a Teheran il 25 gennaio 1980 sotto falso nome (Kevin Harkins) e prima della partenza sottopone i 6 a un training intensivo per imparare la copertura. Ognuno di loro riceve un’identità completa: nomi, nazionalità, ruolo nella troupe (chi il regista, chi lo sceneggiatore, chi lo scout per le location, chi il cameraman). In 48 ore devono memorizzare ogni dettaglio. Imparano i falsi nomi, le biografie inventate dei personaggi, perfino ad articolare qualche frase con accento canadese. 

Per entrare nella parte, i 6 frugano tra i vestiti portati da Mendez e scelgono degli outfit hollywoodiani. Via gli abiti dimessi da impiegati governativi, dentro camicie di seta sbottonate, medaglioni d’oro al collo e occhiali da sole da produttori anni ’70. 

27 gennaio 1980, alba. Tutto è pianificato nei minimi dettagli. I biglietti aerei sono stati già acquistati: volo di linea Swissair delle 7:30 da Teheran a Zurigo, con posti anche su altri voli successivi (KLM, Air France, BA) nel caso qualcosa vada storto. 

Per fortuna l’idea di partire all’alba funziona: lo scalo è semivuoto e gli addetti forse meno attenti. Mendez arriva per primo e presidia il check-in. Poco dopo ecco comparire, tutti insieme, i sei “cineasti” scortati da un secondo agente CIA (nome in codice Julio). 

Gli otto superano i controllori della dogana e, dopo un ritardo di un’ora dell'aereo, mischiati agli altri passeggeri, si avviano al gate porgendo le carte d’imbarco. L'aereo dopo poco esce dai confini iraniani. Ce l’hanno fatta. 

“Anche in quel momento, non festeggiammo davvero, perché per quanto ne sapevamo, l’iraniano seduto accanto a noi poteva essere il capo della polizia di Teheran!” scherzerà poi Mark Lijek.

La notizia della fuga trapela sui media e i Canadian Six vengono accolti come eroi in patria. Il popolo americano tributa onori senza precedenti al Canada. Nelle città statunitensi sventolano bandiere canadesi, sui cartelloni pubblicitari campeggiano scritte “Thank You Canada!”. Circostanze oggi impensabili oggi considerando gli attuali rapporti tra i due paesi. 

Il parlamento canadese, che aveva tenuto il segreto fino all’ultimo, chiude l’ambasciata a Teheran e fa rimpatriare d’urgenza tutto il personale (solo poche ore dopo anche gli iraniani intuiranno cosa è successo, e cercheranno vendetta assaltando l’ambasciata della Nuova Zelanda, ormai vuota). 

Il coinvolgimento della CIA resterà invece top secret per altri 17 anni, fino al 1997 quando i documenti dell’operazione verranno desecretati, rivelando il ruolo decisivo di Tony Mendez e soci. Nel 2012 Hollywood consacrerà la vicenda con il film Argo, che vincerà l’Oscar. Il film, diretto e interpretato da Ben Affleck, enfatizzerà l’azione rocambolesca in aeroporto e il contributo CIA, suscitando però qualche malumore in Canada. Persino l’ex presidente americano Jimmy Carter dichiarerà polemicamente che “Il 90 percento delle idee e della realizzazione del piano fu opera dei canadesi,” e che l’ambasciatore canadese Ken Taylor fu il vero protagonista, mentre il film “attribuisce quasi tutto il merito alla CIA americana”.

La diplomazia degli ostaggi

Negli ultimi quindici anni, la detenzione di cittadini stranieri è diventata una costante in Iran. Dal 2010 almeno 66 persone con doppia cittadinanza o passaporto occidentale sono state arrestate in Iran tra accademici, attivisti, imprenditori, operatori umanitari e molti giornalisti.

Il caso più noto è quello di Jason Rezaian, corrispondente del Washington Post, detenuto per 544 giorni e liberato nel 2016 in cambio di prigionieri iraniani e un versamento di 400 milioni di dollari. Prima di lui, nel 2009, fu la volta di Roxana Saberi, giornalista americana di origini iraniane, scarcerata dopo poco più di tre mesi. Nel 2019 toccò alla russa Yulia Yuzik, accusata, senza prove, di legami con l’intelligence israeliana. Più recentemente, nel dicembre 2024, è toccato a Cecilia Sala, inviata italiana a Teheran, fermata e detenuta per tre settimane nel carcere di Evin. 

Ma la repressione non si è fermata ai confini del Paese. Dissidenti, giornalisti e oppositori della diaspora sono diventati bersagli mobili in giro per il mondo. Nel 2023, il giornalista Pouria Zeraati, volto di Iran International, è stato accoltellato a Londra da uomini legati a una rete criminale dell’Est Europa. Secondo il Washington Post, dietro l’attacco c’era un’operazione dell’intelligence iraniana: nessuna rivendicazione, serviva solo a mandare un “segnale” ai dissidenti.

Nel frattempo, altri dossier raccontano un fronte più sottile: quello delle infiltrazioni ideologiche e diplomatiche. Un’inchiesta del 2023 ha rivelato come Teheran, attraverso una rete chiamata Iran Experts Initiative, abbia coltivato rapporti con ricercatori, analisti e funzionari occidentali, inserendo figure vicine al regime in centri di ricerca e ambienti governativi.

È stata una guerra di spie a bassa intensità, condotta da tutte le parti in campo. Come dimostra la storia di Alireza Akbari: ex vice ministro della Difesa, uomo stimato ai vertici della Repubblica islamica, e allo stesso tempo spia al servizio dell’intelligence britannica. Secondo le autorità iraniane, fu lui a rivelare l’esistenza del sito nucleare di Fordow, oggi uno degli obiettivi principali dei bombardamenti israeliani e americani. Nel 2023 è stato condannato a morte per alto tradimento e giustiziato.

Oggi che l’Iran è tornato al centro delle cronache non per un sequestro, ma per i bombardamenti che hanno colpito la sua capitale e risvegliato il timore di un conflitto più vasto, tornano alla memoria le immagini sgranate del 1979. Ogni crisi ha le sue forme, ma certe geometrie del potere, visibili o invisibili, si sono ripetute per anni fino al bombardamento dei giorni scorsi.

Al prossimo Debrief,
Luigi e Sacha

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