Quando l’undercover è una forma d’arte

Il giornalista tedesco Jean Peters ci mostra quanta performance c'è nell'undercover.

In questa newsletter parliamo spesso di giornalismo sotto copertura come tecnica investigativa o come metodo d’indagine utilizzato dalle forze dell’ordine. Ma non abbiamo ancora mai guardato a un’operazione sotto copertura come un atto performativo. Eppure per poter fare indagini in questo modo bisogna instillare nella realtà un piccolo elemento di finzione, e quella finzione, nel suo concepimento e nella sua esecuzione, è una performance a tutti gli effetti.

Per aiutarci a riflettere su questo delicato equilibrio tra reale e fittizio, abbiamo incontrato Jean Peters, giornalista investigativo tedesco di Correctiv, una delle più interessanti realtà di giornalismo investigativo in Europa. Peters è autore di numerose inchieste che hanno fatto il giro del mondo, tra cui Secret Plan Against Germany, in cui ha svelato l’alleanza delle destre europee rispetto al piano di remigrazione, un progetto di deportazione di massa di migranti.

Prima di applicare il metodo undercover al giornalismo investigativo, però, Peters ha iniziato ad adoperarlo all’interno del collettivo artistico Peng! di cui è stato co-fondatore.

L’ho incontrato a Milano, dove era arrivato per dialogare con me del metodo undercover davanti a una platea di studenti e giornalisti. Aveva appena poggiato la valigia quando ho fatto partire la registrazione. Quella conversazione — ora disponibile anche in formato podcast — è stata anche un modo per conoscerlo meglio: puoi ascoltarla integralmente qui.

Questo numero è scritto da Luigi ed editato da Sacha.

Quando l’Nsa venne bombardata da volantini

Nel 2015, davanti al quartier generale NSA a Fort Meade e alla sede del BND (il servizio federale di intelligence) a Berlino, comparvero manifesti pubblicitari che incoraggiavano gli agenti dei servizi segreti a lasciare il lavoro per ragioni etiche. La campagna era firmata da Intelexit, un fantomatico programma di supporto psicologico per agenti dell’intelligence in crisi di coscienza. Il logo era credibile, il linguaggio calibrato. Aveva l’aspetto di una campagna governativa. Ma non lo era.

A idearla era stato il collettivo artistico “Peng!”, che aveva creato una delle operazioni di media art più audaci mai realizzate in Europa: una campagna fittizia, ma incredibilmente ben orchestrata, per convincere gli agenti dei servizi segreti a lasciare il proprio incarico, facendo leva su dubbi morali e senso di responsabilità. In cambio si offrivano servizi di counseling psicologico e legale ai potenziali fuoriusciti.

Uno dei cartelloni pubblicitari della campagna Intelexit | Peng!

Il progetto si articolava in diversi livelli: un sito web professionale, con una sezione “Exit Now!” che simulava un questionario attitudinale, e una campagna social e stampa che diventò virale. “Peng!” addirittura arrivò a sorvolare la base NSA di Griesheim con un drone, che sganciò centinaia di volantini che invitavano all’Intelexit, cioè a dimettersi dalle forze di intelligence.

Ma il colpo di genio fu un altro. Nei volantini era stato lasciato un numero per il supporto psicologico e incredibilmente gli agenti dei servizi segreti iniziarono a chiamare. Ma non solo. “Abbiamo raccolto i numeri di telefono di 30.000 agenti dei servizi segreti di CIA, NSA, Germania, Francia, Canada e Regno Unito – mi ha detto Peters – e abbiamo invitato il pubblico a chiamarli e a parlare con loro di democrazia, perché quello che fanno i servizi segreti, anche se sostengono il contrario, spesso è minare la democrazia”. La gente veniva incoraggiata a chiamarli, non per molestarli, ma per porre domande etiche. Parlare di democrazia. Chiedere: cosa stai facendo, e perché?

Il drone di Peng! bombarda la sede dell’Nsa con i volantini | Peng!

Per tre giorni non ci furono reazioni. Poi qualcosa si ruppe. “Dopo il terzo giorno, i servizi segreti capirono – racconta Peters – lessero sui giornali quello che stavamo facendo. E quando chiamavamo, iniziarono a recitare. Così la performance si ribaltò. All’improvviso, il personale dei servizi segreti riceveva le chiamate e cercava nelle email il copione da leggere. Iniziarono a leggere, dicendo: ‘Siamo un’istituzione democratica fondata esclusivamente sui principi della Costituzione, eccetera.’ E all’improvviso il direttore, che era l’addetto stampa dei servizi segreti, e le spie dei servizi recitavano la parte di attori che impersonano un’istituzione democratica.”

Intelexit aveva anche una seconda lettura: non voleva solo far riflettere i funzionari, ma anche il pubblico. L’idea era smascherare l’opacità strutturale dei servizi segreti, mettendoli in scena. Non per ridicolizzarli, ma per restituire un senso umano a chi li abitava. Non era solo una campagna condotta da attivisti che avevano a cuore i principi che alimentano la democrazia. Era tactical media art.

Cos’è davvero il Tactical Media Art?

Il tactical media art non è propaganda. E non è nemmeno una burla. Nella sua forma più potente, è un modo per dire la verità creando rottura, inserendo attrito dentro i canali stessi dell’informazione, e usando la grammatica dei media come materiale grezzo da smontare e rimontare.

Il risultato è una comunicazione ibrida e spiazzante: riproduce il tono e il formato della comunicazione istituzionale, ma ne sovverte il senso, rivelando contraddizioni che altrimenti resterebbero invisibili. È il caso di Zero Trollerance, che fu lanciata nel 2015 come operazione di satir-attivismo contro il sessismo online. Consisteva in un finto programma di “rieducazione” per troll sessisti, presentato attraverso un sito web dedicato e una serie di bot su Twitter: questi ultimi individuavano automaticamente tweet offensivi verso le donne e rispondevano invitando i troll a iscriversi a un percorso di auto-aiuto per diventare femministi. La campagna aveva un tono volutamente ironico – ad esempio con video motivazionali di un fantomatico “guru” – ma mirava a denunciare il problema della misoginia in rete.

La campagna "Deutschland Geht Klauen", lanciata da Peng! nel 2018, simulava una finta startup che incitava provocatoriamente al furto nei supermercati tedeschi per compensare simbolicamente lo sfruttamento coloniale subito dai Paesi del Sud globale: le grandi catene occidentali “rubano” i diritti umani pagando salari da fame nei paesi produttori, quindi Peng! ha ribaltato la prospettiva esortando i consumatori a “rubare” e compensare così le vittime dello sfruttamento. Il fatto che una cosa così paradossale fosse affrontata con toni così seri serviva per far riflettere sul passato coloniale della Germania e sulle sue eredità.

Uno dei video promozionali della “Deutschland Geht Klauen” | Peng!

“Ci sono certe verità che non puoi trasmettere direttamente da mittente a destinatario, ma puoi comunque fare in modo che arrivino, perché sono molto complesse – mi dice Jean Peters – Si può vedere attraverso gli algoritmi delle Big Tech chi viene favorito, nel modo in cui alcune informazioni vengono spinte in alto e altre fatte scomparire, nel meccanismo di gatekeeping delle grandi aziende tecnologiche. Un tempo i gatekeeper erano i programmi TV e i giornali, ora le cose sono cambiate. Dobbiamo ripensare il modo in cui creiamo notizie, in modi che attualmente non utilizziamo. Ovviamente, non mentiamo, non falsifichiamo. Siamo molto chiari. Ma allo stesso tempo, ci rivolgiamo anche a chi non ha tempo di approfondire davvero, offrendo però una nuova forma di ricettività dell’informazione.”

Smontare il potere, un’identità alla volta

Jean Peters è stato tante cose, almeno quanti sono gli altri pseudonimi che ha utilizzato. È stato artista, cofondatore di “Peng!”, giornalista investigativo per Correctiv. Ma il suo metodo è rimasto lo stesso: smascherare i meccanismi del potere attraverso un atto performativo. 

"Penso che non ci sia possibilità di non performare, in un modo o nell’altro" — mi ha detto. "Se guardi a come è strutturata la società, lo percepisci immediatamente. Se qualcuno si trova in una gerarchia, qualunque sia la sua classe sociale, quella è una performance. Ci sono dei codici. Il modo in cui mangi, parli, occupi lo spazio. Tutto questo fa parte della performance in cui siamo immersi."

Jean Peters durante lo spettacolo Schwarz Rot Braun a Milano

Per Peters, l’infiltrazione non è solo un metodo investigativo. È un atto di lettura e messa in scena della realtà, che smaschera i meccanismi sociali là dove si nascondono meglio: "Ora lavoro come giornalista investigativo. Artisti e giornalisti raccolgono informazioni, le filtrano e le riassemblano in un modo che abbia senso. Il modo in cui lo fanno è diverso. Ma l’atto in sé è molto simile."

Lo ha dimostrato anche quando ha attraversato il confine tra i due mondi, pubblicando con Correctiv un’inchiesta che ha messo in crisi l’estrema destra tedesca e destabilizzato il panorama mediatico nazionale: "Ero un outsider nel mondo del giornalismo" racconta. "E abbiamo fatto questa inchiesta che è stata letta ovunque. I grandi giornali si sono sentiti minacciati. Dicevano cose tipo: 'Questo non è un giornalista come noi'. Da un lato c’era una minaccia all’integrità da parte dei media tradizionali, dall’altro — nel mio caso — la minaccia dei neonazisti. Dicevano: 'Questo non è vero giornalismo, non è il modo giusto di farlo', e gli altri dicevano: 'Non è vero'. Ma la verità, alla fine, cadrà sempre sui loro piedi."

Il piano segreto contro la Germania

Nel gennaio 2024, Correctiv ha rivelato uno dei complotti più gravi della recente storia tedesca. A scoprirlo è stato proprio Jean Peters, che si è infiltrato in una riunione segreta dell’estrema destra a Potsdam. Lì, politici di Alternative für Deutschland, membri del movimento identitario, imprenditori e intellettuali conservatori discutevano un “piano di remigrazione” destinato a cambiare per sempre il volto del Paese: deportare milioni di persone con background migratorio, anche se cittadini tedeschi da generazioni.

Quello che Correctiv ha documentato non era una semplice deriva ideologica, ma una strategia sistematica. Gli ideatori intendevano operare con una strategia graduale: “censimenti” e schedature etniche, revoca della cittadinanza tedesca ai doppi cittadini non considerati di sangue tedesco, e infine espulsioni di massa. Il tutto con la complicità silenziosa di élite economiche e attori politici emergenti.

L’inchiesta su Correctiv

Quando l’inchiesta è uscita, la Germania si è svegliata con un nodo in gola. La rivelazione ha scatenato una reazione collettiva: oltre 1,5 milioni di persone sono scese in piazza nelle settimane successive, in una mobilitazione spontanea tra le più partecipate dal dopoguerra. I talk show si sono infiammati, il Bundestag ha dovuto reagire, l’Afd ha cercato di negare e minimizzare — senza riuscirci. La parola “remigrazione” è diventata il simbolo di una nuova minaccia autoritaria, reale e interna.

Questa inchiesta ha mostrato in maniera estremamente potente all’opinione pubblica tedesca che non basta solo documentare i fatti, ma bisogna entrare nei meccanismi nascosti del potere per renderli visibili. E ha dimostrato che quando tocca temi così rilevanti, magari trattati con superficialità dai media mainstream, l’undercover può arrivare a scuotere un intero Paese.

Lascia che l’undercover ti cambi

Peters è un giornalista. Ma non solo. Mette in scena la verità. Trasforma l’indagine in performance. E così facendo, ci invita a ripensare cosa possa essere il giornalismo quando gli strumenti tradizionali non bastano più.

"Se vuoi essere un buon giornalista devi essere curioso e conoscere il mondo" — mi ha detto. "Scrivere bene non è la parte più importante. Devi capire il mondo, averlo trasceso, vissuto. Aver mangiato cibo buono e cibo pessimo, attraversato difficoltà e bellezza. Senza accesso a tutto questo, è difficile capire davvero il mondo. Quella è la base. Da lì, possiamo cominciare a lavorare."

E forse è proprio questo, l’undercover. Non solo entrare in un sistema inaccessibile. Ma lasciare che, in una piccola parte, il sistema entri dentro di te.

Al prossimo Debrief,
Sacha e Luigi

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