Spie in redazione: come è stato risolto un mistero durato mezzo secolo

Una conversazione con Emanuele Midolo, il giornalista investigativo che ha risolto un intrigo di spionaggio della Guerra Fredda.

Immaginate un corrispondente estero durante la Guerra Fredda: vestito impeccabile, con un taccuino a portata di mano, mentre entra furtivamente in ambasciate e bar clandestini nelle capitali più remote del mondo. Sembra una scena da romanzo di spionaggio e, effettivamente, lo è. In questo numero parliamo con il giornalista investigativo Emanuele Midolo del suo nuovo libro, Murder in Cairo: Solving a Cold War Spy Mystery, in cui è venuto a capo dell’omicidio irrisolto di David Holden, un importante reporter del Sunday Times, assassinato al Cairo nel 1977. Questa indagine ha portato alla luce anni di spionaggio e insabbiamenti e ha svelato le ambigue intersezioni tra il mondo del giornalismo e quello dei servizi segreti. Nella nostra conversazione, Midolo ha spiegato come sia riuscito a riaprire questo mistero vecchio di 46 anni insieme a un giornalista di lungo corso come Peter Gillman. E come abbiamo raccontato anche in uno dei primi numeri di Debrief, con lui abbiamo parlato di come le spie abbiano spesso usato il giornalismo come copertura.

Oggi è venerdì 11 luglio, e insieme a questa newsletter pubblichiamo un nuovo episodio di Debrief – The Undercover Dispatch Podcast, in cui potete ascoltare la nostra conversazione con Emanuele Midolo, registrata pochi giorni fa:

Questo numero è scritto da Sacha ed editato da Luigi

Dalla Sicilia al Sunday Times

Il percorso di Emanuele Midolo nel giornalismo investigativo attraversa diversi paesi. Nato in Sicilia, Midolo muove i primi passi come giovane reporter a Parigi. «Volevo diventare un giornalista investigativo, così decisi di trasferirmi nella City», ci ha raccontato. A Londra si è laureato al master in giornalismo investigativo presso la City University e da lì ha iniziato a lavorare su grandi temi come la corruzione internazionale.

Midolo ha affinato le sue tecniche investigative seguendo flussi di denaro sporco. I suoi primi lavori puntavano i riflettori sul riciclaggio di danaro nel mercato immobiliare londinese. Come dice lui stesso, «Londra è forse la capitale mondiale del riciclaggio». Dopo un periodo trascorso scrivendo di economia e finanza per Forbes, Midolo entra a far parte del Times e del Sunday Times nel 2020. Ed è allora che si imbatte per la prima volta in un vecchio mistero sepolto negli archivi della sua stessa redazione, un caso che lo trascinerà indietro di mezzo secolo.

Omicidio al Cairo

Copertina di Murder in Cairo, scritto da Peter Gillman ed Emanuele Midolo.

In una calda notte del dicembre 1977, David Holden, capo corrispondente estero del Sunday Times, atterra al Cairo per raccontare gli storici colloqui di pace in Medio Oriente. La mattina seguente viene ritrovato morto, il corpo abbandonato lungo una strada, con un proiettile conficcato nel petto. Quell’evento sconvolgente ebbe conseguenze che andarono ben oltre la redazione del giornale. «Non si trattava di un corrispondente di guerra ucciso da una mina o colpito da soldati nemici. Era chiaramente un assassinio», racconta Midolo, descrivendo la reazione del Sunday Times. In un’epoca in cui raramente i giornalisti erano bersagli diretti, la morte violenta di un reporter così noto scosse profondamente il mondo dei media.

Sconvolto dalla perdita del suo corrispondente di punta, il Sunday Times reagì immediatamente. Il leggendario direttore Harold Evans inviò il dream team del giornale, il celebre team investigativo "Insight", per scoprire chi avesse ucciso Holden e perché. Sei giornalisti di punta si sparsero in Medio Oriente, ricostruendo i passi finali di Holden e seguendo ogni possibile pista. 

Il team Insight aveva già risolto casi clamorosi in passato, smascherando spie sovietiche e denunciando scandali finanziari, ma stavolta il mistero sembrava impossibile da svelare. Dopo un anno di ricerche ostinate, persino i migliori reporter degli anni Settanta fallirono. «Non riuscirono a venirne a capo: era la storia che gli era sfuggita dalle mani», spiega Midolo, sottolineando come Evans e il suo team fossero tormentati da questo fallimento. Evans avrebbe poi confessato che non aver risolto l’omicidio di Holden fu «il più grande rimpianto della mia carriera giornalistica».

Riaprire un Cold Case

Per decenni l’omicidio di David Holden è rimasto un enigma irrisolto, un cold case dimenticato negli archivi del giornale. Almeno fino a quando Emanuele Midolo ha deciso di riaprire l’indagine. Nel 2020, poco dopo il suo ingresso al Sunday Times, Midolo venne a conoscenza del caso grazie a Peter Gillman, uno degli investigatori del team Insight che aveva seguito la storia nel 1977. «Quando Peter mi raccontò tutta la vicenda, rimasi assolutamente sbalordito, perché sembrava più assurda di una storia di fiction», ricorda Midolo. Un mistero lungo 46 anni, fatto di spie, un giornalista assassinato e domande senza risposta che avevano tormentato una generazione intera di reporter. Per Midolo era finalmente giunto il momento di unire i puntini.

Peter Gillman e Emanuele Midolo

Midolo si mise subito in contatto con Gillman, ormai un giornalista veterano ottantenne, e gli propose di unire le forze per portare a termine ciò che era stato iniziato decenni prima. Gillman aveva raccolto allora un rapporto di 200 pagine, ricco di piste e indizi che non avevano mai portato al colpevole. Midolo iniziò così ad analizzare quel prezioso materiale d’archivio, sfruttando nuovi strumenti digitali e interviste inedite per approfondire ulteriormente l’indagine. «Ho iniziato a investigare partendo proprio da quel rapporto di 200 pagine. Peter aveva accumulato un materiale incredibile, su cui ho potuto basarmi, e direi che alla fine lo abbiamo risolto insieme», spiega Midolo, sottolineando il valore della loro collaborazione tra generazioni diverse. Non fu semplice convincere il collega più anziano a riprendere il caso, «ci volle qualche piccola spinta», racconta Midolo, ma presto i due giornalisti cominciarono a lavorare in tandem. I decenni che li dividevano non hanno impedito ai loro approcci di fondersi con naturalezza. Perché i fondamenti del giornalismo investigativo, spiega Midolo, «alla fine non sono cambiati molto rispetto agli anni Settanta: si tratta sempre di seguire la propria curiosità, fare domande difficili, trovare fonti e ricomporre il puzzle». Certo, oggi ci sono strumenti digitali che accelerano le ricerche, ma «il senso di curiosità e le tecniche restano sempre le stesse».

La doppia vita di David Holden

Cos’era accaduto davvero a David Holden? La perseveranza di Midolo e Gillman ha dato i suoi frutti, facendo emergere le prove di una segreta doppia vita del rinomato giornalista. «Era evidente che dietro David Holden ci fosse molto di più della sua semplice carriera giornalistica», racconta Midolo. E la verità che emerge è degna di un romanzo di spionaggio: secondo le ricerche di Midolo e Gillman, Holden «non era un semplice corrispondente estero, ma una spia». Era stato reclutato dal KGB ancor prima di diventare giornalista, e in seguito coinvolto segretamente dalla CIA, assumendo forse il ruolo di doppio agente. Questa rivelazione getta una nuova luce sull’omicidio del 1977: se Holden operava nelle ombre dello spionaggio della Guerra Fredda, è plausibile che sia stato ucciso proprio a causa dei segreti che custodiva o delle lealtà che aveva tradito.

David Holden

Ma i colpi di scena non finiscono qui. Mentre Midolo scavava negli archivi e intervistava nuove fonti, scoprì i segni di un insabbiamento che arrivava fino ai vertici dei servizi segreti britannici. «C’è l’omicidio in sé, e poi quello che riteniamo essere stato un vasto insabbiamento da parte dell’intelligence britannica», ci rivela Midolo. Incredibilmente, qualcuno all’interno dello stesso Sunday Times potrebbe essere stato coinvolto in quell’insabbiamento. Midolo scoprì che un membro dello staff del giornale, un ex ufficiale dei servizi segreti assunto durante gli anni della Guerra Fredda, aveva probabilmente sabotato dall’interno l’indagine originale. (Quella persona è deceduta negli anni Novanta, lasciando tuttavia ancora aperti alcuni interrogativi.) I legami tra giornalismo e spionaggio in questa vicenda affondano le radici molto in profondità: si è scoperto infatti che la pratica del Sunday Times di assumere ex spie come corrispondenti esteri risaliva agli anni Cinquanta, quando nientemeno che Ian Fleming (il creatore di James Bond, già ufficiale dell’intelligence navale) era il direttore della sezione esteri del giornale. In un certo senso, il destino di Holden è stato il risultato inevitabile della collisione tra due mondi, giornalismo e spionaggio, e il pericoloso gioco in cui era coinvolto è rimasto nascosto per decenni, fino ad oggi.

Spie in redazione

L’indagine di Midolo sul caso Holden mette in luce una verità storica più ampia: giornalisti e spie si sono spesso mescolati nell’ombra. Durante la Guerra Fredda, il giornalismo offriva una copertura quasi perfetta. «Fare il giornalista era un’ottima copertura per una spia, perché potevi andare ovunque, fare domande senza che nessuno si insospettisse», spiega Midolo. Gli agenti segreti potevano entrare in paesi stranieri sotto la protezione di un tesserino stampa, muoversi liberamente e parlare con funzionari e fonti senza destare sospetti. Essere un giornalista rappresentava, infatti, «la miglior copertura possibile» per un operativo. Molte spie famose di quell’epoca agirono proprio fingendosi reporter, rendendo così indistinguibili l’attività giornalistica e quella di spionaggio. Non c’è da stupirsi, dunque, se i regimi autoritari iniziarono a guardare con sospetto ai giornalisti occidentali, a volte anche con buone ragioni.

Oggi, però, il panorama è cambiato, anche se l’eco di quella diffidenza rimane. «Credo che oggi sia molto meno frequente, perché la professione è cambiata radicalmente», afferma Midolo, osservando come l’epoca d’oro dei corrispondenti esteri sempre in viaggio stia ormai volgendo al termine. Nel XXI secolo, le spie utilizzano nuove identità e tecnologie sofisticate: è più probabile che siano hacker piuttosto che reporter. «Se volete la mia opinione, le spie di oggi si trovano nel settore informatico. Non credo che noi giornalisti siamo più così utili come lo eravamo un tempo», aggiunge Midolo.

Eppure, le vecchie abitudini e le diffidenze sono dure a morire. Governi come quello russo continuano a guardare ai giornalisti con paranoia, come dimostra l’arresto di un corrispondente del Wall Street Journal a Mosca, accusato di spionaggio. Midolo comprende da dove derivi questa paranoia: «Tanti giornalisti [in passato] lavoravano davvero come spie, come biasimare chi ancora pensa sia così?». Tuttavia, la sua speranza è che portando alla luce storie come quella di David Holden si possa affrontare con chiarezza questo passato complicato. Parlare apertamente delle zone d’ombra tra giornalismo e spionaggio è il primo passo per separarle davvero. È una questione di fiducia, ma anche di responsabilità: chi fa informazione non può permettersi certe ambiguità.

A Debrief tracciamo una linea netta. Perché il nostro compito non è raccogliere segreti per conto di altri, ma svelarli nell’interesse di tutti.

Per ora è tutto.

Al prossimo Debrief,
Luigi & Sacha

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